mercoledì 5 febbraio 2025

Nelle acque del Gange in lettiga

Sono nato nella Calcutta d’un tempo ormai svanito. Nella città d’allora le carrozze traballanti avanzavano sollevando polvere e le fruste schioccavano sul dorso dei cavalli scarni. Non c’erano tram, autobus, automobili. Neppure c’era quel lavoro frenetico, s’aveva molto tempo a disposizione e la vita scorreva placida.

I ricchi avevano calessi con il loro monogramma impresso in oro, tettuccio in cuoio e cocchiere in serpa col turbante elegantemente di traverso mentre, dietro, due lacchè con cintura in pelo di yak facevano sobbalzare i pedoni gridando “Ayo” e obbligandoli a lasciar libero il passo. 

Le donne uscivano soltanto nel buio soffocante di lettighe dagli sportelli sbarrati. Avrebbero provato gran vergogna a mostrarsi in carrozza aperta; se piovesse o facesse sole non usavano mai parapioggia o ombrellino. Se una giovane osava portare camicetta o sandali veniva chiamata Memsahib (memsahib è la donna europea), il che implicava pressappoco che avesse perso ogni pudore. Se accadeva che, in casa, una d’esse si trovasse inaspettatamente davanti a un estraneo, subito sollevava il sari fino alla punta del naso, si mordeva la lingua e voltava svelta il dorso al visitatore. 

Nelle famiglie abbienti s’aggiungeva addirittura, sulla lettiga che trasportava ragazze e nuore, una spessa coperta che le dava l’aria d’un catafalco. Di fianco al palanchino camminava il dorvan (intendente) impugnando un gran bastone dal pomo in rame. Gli spettavano varie incombenze. Seduto accanto al portone vigilava la casa carezzandosi la barba. Portava il denaro in banca, scortava le donne di famiglia quando si recavano in visita e, nei giorni festivi, le accompagnava al bagno rituale immergendole, loro e il palanchino chiuso nel Gange.

Tagore A quel tempo

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