Frammenti: donna e linguaggio verbale

Carla Maria Carletti
Donna e linguaggio verbale

La lingua ha un potere enorme; perché attraverso di essa noi comunichiamo, e in essa si riflettono le nostre esperienze e gli schemi che costruiamo della realtà. Ma soprattutto perché la lingua a sua volta ha la possibilità di agire sui fruitori perpetuando questi schemi prefabbricati attraverso le generazioni e condizionando, in modo più o meno lieve, la concezione della realtà.

In un grande numero di lingue il genere femminile è “marcato”: cioè, il maschile vale generalmente per tutta la specie, mentre il femminile specifica il sesso. Ad esempio, parlando di cani, gatti o cavalli possiamo riferirci sia ai soli maschi che a tutti, maschi e femmine ; mentre siamo costretti a dire “gatte”, “cagne”, “cavalle”, indicando animali femmine.

Un altro esempio di subordinazione grammaticale: se per caso vi sono 4 nomi femminili ed un nome maschile l’ articolo e gli aggettivi ad essi riferentisi andranno al maschile. Possiamo dire di due ragazze : “Esse sono contente” , ma se ci riferiamo a un gruppo composto di 9 femmine ed un solo maschio dovremo dire : “Essi sono contenti”. Questo aspetto del linguaggio è evidentissimo nelle aule scolastiche, allorché si chiede nelle classi femminili: “Siete tutte in classe ? “, mentre se la classe è maschile oppure mista il pronome si volge al maschile

Il vocabolo 'uomo' indica l'essere umano in generale, e indica anche quello biologicamente maschio. Questo doppio significato è comune ai vocaboli corrispondenti di altre lingue ; l’ inglese “man”, il francese “homme”, lo spagnolo “ hombre”. Fra le lingue a noi più vicine, solo il tedesco distingue tra “ mann ” ( individuo maschio ) e “ mensch ”( denominazione generica della specie umana).

La parola “ donna “ è invece limitata ( marcata, appunto ), e si riferisce esclusivamente agli individui di sesso femminile. Per cui, parlando di uomini e donne insieme, ci riferiamo a tutti come “ uomini ”, mentre usciamo fuori da questo termine parlando di sole donne.

Non esiste nell’opinione comune il concetto di “uomo-maschio” e di “uomo-femmina”.
“ Donna ” non indica “uomo-femmina”, ma “femmina dell’ uomo”, che è qualcosa di estremamente diverso.

Sfogliando un diffusissimo libro di Biologia ad uso delle scuole ( il Lambertini-De Lerma- Testai ), troviamo che tutte le illustrazioni ( riguardo allo scheletro, al sistema nervoso, al cervello, agli organi interni, ecc. ) raffigurano un umano di sesso maschile.

Nessuno dei fruitori avverte l’ anormalità di queste figure, per le stesse donne appare “naturale”, “ovvio” indicare il maschio per indicare la specie. Se, per ipotesi, le sostituissimo con figure di donne, nessuno coglierebbe che rappresentano la razza umana; significherebbero solo se stesse. E siccome, nell’ opinione comune, la donna è “sesso”, sarebbero in ogni caso immagini sessuali, perciò oscene.

Dato che la raffigurazione “scientifica”, “neutra”, della femmina umana è assente dai nostri testi di apprendimento, un nudo di donna ci appare indissolubilmente legato al sesso anche se non ha affatto intenti sessuali, cioè indipendentemente dai contesti e dalle circostanze. Mentre la nostra percezione del maschio è di un essere completo, che ha certamente una sessualità, ma non come funzione esclusiva. Occorrono particolari condizioni perché il suo nudo diventi “sessuale”. Ed è proprio questa “completezza” che lo rende il solo, vero appartenente alla specie umana.

Scrive P. Mercier: “ La donna è per eccellenza la non iniziata e la non iniziabile alle conoscenze, alle funzioni che permettono di assicurare la direzione del gruppo sociale ”

Alla pubertà i maschi, introdotti tra gli iniziati, si separeranno per sempre dal gruppo delle donne e dei bambini, che costituiscono il mondo dell’ inferiorità e dell’ ignoranza. Adesso soltanto sono realmente individui, a cui viene attribuito un nuovo nome, che sovente apprendono un linguaggio segreto che solo a loro appartiene. Essi acquistano tutte le conoscenze relative alla vita sociale, apprendono le tradizioni della tribù, i suoi miti, la sua storia, la sua tradizione culturale.

“ Con l’ iniziazione – dice Ida Magli - si passa dal ‘dato’ della vita naturale all’ ‘acquisto’ della consapevolezza culturale, un acquisto su cui si basa la differenza tra uomo e donna.

Kierkegaard ha affermato : “Essere donna è qualcosa di così strano, di così intricato, di così complesso, che nessun predicato riesce ad esprimerlo e i molti predicati che si vorrebbero usare si contraddirebbero in maniera tale che può sopportare solo quello di donna”.

Per un maschio la cosa più “aliena” è certamente il corpo della donna e quelle funzioni che appartengono ad esso soltanto, come la gravidanza e la mestruazione. Nel corpo femminile identificato come diverso dal proprio si sono accentrati credenze e tabù in gran numero. Il più universale è il tabù del sangue mestruale, considerato velenoso e portatore di morte. Tutti gli etnologi hanno rilevato l’ impressionante coincidenza, nelle culture più lontane e differenti, degli stessi riti di tabuizzazione del mestruo.

Solo nelle popolazioni primitive si arriva all’ allontanamento della donna mestruata, che deve vivere segregata dal resto della tribù in una casa apposita, ma il concetto della sua “impurità” è non solo universale ma ancora vitale.

In tutto il Meridione italiano ( e nelle campagne del Nord) vi è ferma credenza che il sangue mestruale faccia arrugginire il ferro, trasformi le medicine in veleni, faccia cagliare il latte, produca un gran numero di fenomeni dannosi. Perciò si avverte alle ragazze di non toccare i fiori per non farli appassire, di non tagliare le unghie e i capelli né farsi estrarre denti e si vieta loro di buttare giù la pasta, preparare le conserve di pomodoro e partecipare alla lavorazione delle carni di maiale. Anche lavarsi e muoversi eccessivamente è pericoloso.

E' stata soprattutto Simone de Beauvoir, nel suo libro “Il secondo sesso”, a riflettere sulla riduzione a “natura” della donna.
Ecco come: nella sua fantasia l’ uomo ha avvicinato la donna alla luna per il suo carattere di periodicità, alla natura creatrice per il suo potere di procreare, all’ aldilà per il suo costituirsi “ponte” tra l'esistenza e la non-esistenza. Possiamo realmente dire che la donna è esclusa dall’ umanità, perché è “natura”.

Gli uomini primitivi erano invasi da un profondo sentimento di venerazione e di timore al cospetto della Terra-Natura, la “Grande Madre” che generava tutte le cose, che dava la vita e la toglieva, con la sua terribile potenza. Le più antiche sculture del paleolitico, trovate in regioni e continenti diversi, raffigurano la dea madre come una donna con enormi seni rigonfi o ventre maturo. Per i nostri antenati la natura si identifica con il sesso femminile. La donna è femmina, e la femmina è natura.

Un’ immagine femminile che sembra ispirare molto gli artisti di ogni tempo è la donna immersa nel sonno: la personificazione della passività. Da questa ispirazione sono nate opere squisitamente maschili, nelle quali la figura di donna assume il valore estetico di un sereno e maestoso paesaggio.

La personificazione poetica della Femminilità (uno dei concetti più deleterei mai creati) ha la pelle bianca come la magnolia e vellutata come la pesca, la chioma nera come l’ ala del corvo o bionda come il grano, labbra di corallo, denti di perla, orecchie simili a conchiglie, occhi color del cielo e del mare, dell’ ambra o della notte oscura. Quindi la bellezza ideale è qualcosa che sta a metà fra il paesaggio e la “natura morta”. Non a caso si definisce “in
fiore” o “sfiorita”, “fresca” o “appassita”. E’ significativo che tali aggettivi siano adoperati esclusivamente per le donne.

F. G. Lorca intitolando un suo dramma “Donna Rosita nubile” descrive la protagonista come “Rosa Mutabile”, rossa all’ alba, bianca alla sera, sfogliata di notte, rosa “ non colta ”, che “sfiorisce”. E i messaggi pubblicitari possono essere del tipo “La donna è un’ isola”  (accompagnato visivamente dalla sovrapposizione di una spiaggia e di una figura femminile ) o “Sei una donna arancia o una donna mela? Mira Lanza lo sa”.

La riduzione delle donne a “natura” le ha strettamente legate, in tutte le culture, ai riti della vita e della morte: il lamento funebre è stato dall’ inizio dei tempi una loro prerogativa.
Tradizionalmente esse sono legate alla tradizione, alla conservazione della stirpe; e devono rimanere il più possibile incontaminate dalla cultura; vicine alla semplicità e all’ innocenza primigenia. Così, come nel silenzio della natura l’ uomo si riposa dei suoi sforzi intellettuali o fisici, ma comunque umani, trova riposo e pace nella semplicità e nella passività della donna .

Tale disumanizzazione della femmina umana si è prodotta retrocedendola e fissandola a due ruoli della sfera naturale: essere sesso (stimolo biologico per l’ uomo) e madri (donatrici e protettrici della vita).

Basta leggere la Bibbia per vedere come il vero figlio è il primogenito maschio, non solo per gli uomini ma anche per gli armenti e le greggi, tale da essere consacrato al dio Jahvé.  Nell’ elenco delle discendenze ebraiche compare una lunga serie di nomi maschili: il padre che genera un figlio il quale poi diventa padre di un altro figlio e così via. Questo è valido ancora oggi, con il diritto quasi esclusivamente maschile di trasmettere il cognome, cioè il nome della stirpe. Con l’ imposizione del nome del marito a lei e ai figli, la donna scompare; non è portatrice del nome come lo è della trasmissione della vita.

Molti si sono chiesti a cosa sia dovuta l’ originaria dominanza maschile nei gruppi umani, senza trovare una risposta precisa.
La causa è stata fatta risalire di volta in volta ad una tendenza genetica maschile verso l’ aggressività, alla dominanza sociale, alla maggior forza fisica dell’ uomo rispetto alla donna, alla gravidanza che condizionava in modo pressoché totale la vita delle femmine, o alla combinazione di questi fattori.

L'invenzione della parentela, insieme a quella del linguaggio, segnerebbe secondo molti antropologi il passaggio dall’ animale all’ umano. Nel suo fondamentale libro, Le strutture elementari della parentela. Lévi-Strauss si basa su due fatti: l’ universalità del tabù sull’ incesto e il rituale del “dono”.

Egli individua come universale la regola della proibizione dell’ incesto; nonostante la enorme diversità delle istituzioni familiari esse sono tutte subordinate a tale principio di base, che viene elevato a legge logico-simbolica del pensiero umano. D’altro canto Mauss aveva notato, come tratto che domina le società primitive, lo scambio reciproco dei doni.

Lo scambio dei doni non ha alcun valore economico, ma un enorme valore sociale, perché serve ad affermare, esprimere o creare un legame sociale tra i donatori.
Lévi-Strauss osserva a questo proposito come il tabù dell’ incesto sia universale, mentre i motivi addotti alla proibizione sono svariatissimi. Arriva alla conclusione che le donne sono un dono tra gli altri, anche se il più prezioso, e il tabù dell’ incesto serve ad assicurare gli scambi di donne fra famiglie e gruppi. “La proibizione dell’ incesto non è tanto la regola che vieta di sposare la madre, la sorella e la figlia, quanto invece una regola che obbliga a dare ad altri la madre, la sorella, la figlia. E’ la regola del dono per eccellenza”.
Ed ancora: “Nel momento in cui vieto a me stesso di usare una donna, della quale, di conseguenza, un altro uomo può disporre, c’è da qualche parte un uomo che rinuncia ad una donna, che, perciò, diviene disponibile per me”.

Le donne costituiscono il dono per eccellenza, sia perché con il loro scambio viene stabilito il solo vero legame, quello di sangue fra gli agenti dello scambio stesso, sia perché esse perpetueranno il gruppo mediante nuove vite. Le conseguenze culturali e sociali sono notevoli. Lévi-Strauss spiega così l’equivalenza donna – segno - natura: “Le donne non sono un segno di valore sociale, quanto uno stimolo naturale, e per giunta lo stimolo del solo istinto la cui soddisfazione possa essere differita e, di conseguenza, il solo per cui, all’atto dello scambio, grazie alla percezione della reciprocità, possa operarsi quella trasformazione dallo stimolo al segno che, definendo in tal modo il passaggio dalla natura alla cultura, può svilupparsi come istituzione”.

"Dire questo - afferma Ida Magli - significa porre, all’ inizio della vita culturale, e quindi umana perché l’ uomo si definisce uomo in quanto essere culturale, l’ oggettivazione della donna, il suo essere posta come oggetto di valore e di scambio, con tutte le implicazioni psicologiche e sociali che lo “scambio” comporta. E’ qui, dunque, il problema”.

Dall’ inizio dei tempi i maschi, scoprendo che potevano violentare, hanno iniziato a farlo; e le donne non potevano rispondere allo stesso modo, perché esse non possono violentare un uomo. Ciò ha stabilito la prima divisione definitiva fra dominato e dominatore e l’aggressione fisica, una volta attuata, ha portato a vedere la donna come “proprietà”. Il fatto grave è che anche le donne se ne sono convinte, ed hanno preferito diventare proprietà di un unico uomo (col matrimonio) piuttosto che essere soggette alla minaccia di tutti. In alcune popolazioni primitive sopravvive il ratto delle donne di tribù vicine, per cui l’uomo acquisisce il diritto al possesso di una donna mediante l'appropriazione del suo corpo.

L’ esclusione delle femmine dal comando e dalla proprietà non era tanto dovuta ad incapacità o mancanza di forza fisica, quanto appunto alla possibilità da parte di chiunque ad appropriarsene .
“ Il ratto fu un sistema perfettamente accettabile - accettabile per gli uomini - per l'acquisizione di donne, e sopravvisse in Inghilterra fino al XV secolo. Eleonora d’ Aquitania, secondo un biografo, visse i primi tempi della sua vita nel terrore di essere rapita da un vassallo che, mediante l’ appropriazione del suo corpo, avrebbe avuto diritto alla sua considerevole fortuna ”.
Questo è stato nel passato un mezzo sicuro per ottenere “la mano” di una ragazza di ceto sociale anche enormemente superiore, e si manifesta ancora vitale nei termini della nostra lingua. Non a caso comunissima è l’ espressione “possedere una donna”.

Il vocabolo ufficiale, “scientifico”, preferisce usare per il coito il termine “penetrazione”, semanticamente molto violento, mentre sarebbe più giusto parlare di inserimento.
Recentemente l’ illustre psicanalista Cesare Musatti ha suscitato notevoli reazioni affermando, in TV e poi in un articolo di giornale ( “L’ Espresso” del 12/2/1978, p. 22 ), che una “dolce violenza maschile” è necessaria per l’ unione sessuale; e questa non è una semplice opinione personale. L’ unione di “dolce” e “violenza” è una contraddizione in termini; la violenza è sempre tale, ed è notevole il fatto che solo nel campo sessuale venga non solo ammessa ma giudicata necessaria, istituzionalizzata. Anche la legge giustifica l’impiego di violenza. Secondo l’ articolo 519 del Codice Penale: “La violenza deve essere tale da vincere l’ effettiva resistenza opposta dal soggetto passivo, ma non è considerato violenza l’ impiego di quella moderata forza fisica che di norma è necessaria per vincere la naturale ritrosia femminile".

La giustificazione e l’ esaltazione della violenza non ha solo inciso sul rapporto sessuale in senso stretto, ma ha condizionato tutta la vita delle donne e ne ha limitato enormemente la possibilità di movimento. Tanto che “essere sola” ha un significato diverso dal corrispondente maschile, come ci dimostra l’ espressione: “Cosa fai tutta sola, signorina?” .

Secondo il concetto espresso dalla cosiddetta “aritmetica del sessismo”, “Un uomo solo è un uomo, una donna sola è una che non ha trovato un uomo. Tre donne che passeggiano insieme non sono in tre, ma sono “tutte sole”. ”

L’ abitudine a considerare strano e pericoloso che una donna stia sola, o che esca per le strade da sola, deriva dall’ uso che gli uomini hanno fatto del sesso come arma di intimidazione.

Lo stupro non è certo un fatto sessuale, ma un fatto politico; il vero scopo da raggiungere è l’ imposizione di potere su tutte le donne attraverso una di esse, servendo come strumento diretto a tenerle al loro posto. In questo modo si ricorda alla donna che non può godere della libertà propria di un essere umano, che è colpevole per aver rifiutato la protezione di un uomo, per aver, per esempio, passeggiato di notte per strada senza un uomo. Viene in mente una norma del Corano, secondo cui le donne non devono recarsi da sole in viaggio alla Mecca, ma essere accompagnate da un individuo maschio; basterà la presenza di un bambino o di un lattante maschi, se non hanno parenti adulti, perché non siano molestate.

Senza lo stupro il nostro sarebbe un mondo in cui le donne potrebbero muoversi molto più libere, dato che la sua esistenza costituisce una minaccia sufficiente a mantenere uno stato costante di intimidazione psicologica.

“La prostituzione istituzionalizza il concetto che l’ uomo abbia il diritto di aver accesso al corpo delle donne, e che il sesso sia un servizio femminile che non deve essere negato al maschio, tanto che la società mette da parte una classe di donne espressamente per soddisfare l’ impulso sessuale maschile…”

“Quando i giovani imparano che le donne possono essere comperate per denaro, e che l’atto sessuale implica tariffe fisse, come possono non giungere anche alla conclusione che quanto può essere acquistato può anche essere preso senza il gesto civile di una transazione finanziaria?”.

La divisione capitale stabilita dagli uomini è fra donne “serie” e “leggere”; il corrispondente maschile di “leggera” non esiste, così come l’ aggettivo “facile”, applicabile solo alle femmine.

Un identico comportamento procura due serie opposte di appellativi, lusinghieri e ampiamente positivi da una parte (“dongiovanni”, “playboy”), pieni di disprezzo dall’ altra (vanno da “civetta” a “ninfomane”).

Considerando i termini della lingua le sorprese non finiscono mai; ad esempio esiste solo “concubina” al femminile, col significato di “convivente non regolare” ; “concubino” significa invece “concubinario, che tiene concubina”. Le malattie di origine sessuale vengono dette “malattie di donna o veneree (da Venere), contratte dall’ uomo per contatto carnale”, attribuendo così alla donna la colpa per il passaggio della malattia, come se non potesse avvenire l’ inverso.

Sulla targhetta della navicella spaziale Pioneer, allo scopo di stabilire un ipotetico contatto con esseri alieni, sono stati disegnati un maschio ed una femmina umani, ma solo l’ uomo fa il segno terrestre di saluto e di pace, mentre la donna accanto è immobile, quasi assente.

In molte lingue del mondo, dal cinese all’ ungherese, non è affatto obbligatorio precisare se si sta parlando di un “lui” o di una “lei”. Sono invece le nostre lingue indoeuropee (dall’inglese al russo), con ebraico ed arabo (le semitiche), ad avere come caratteristica una specifica categoria grammaticale per il genere: i sostantivi sono o maschili o femminili (o neutri, in alcune). Questa distinzione pare si sia fatta a spese di una distinzione più antica: l’animato contro l’ inanimato; e dagli animati (e sessuati) è poi traboccata sugli inanimati, specie – ma non solo – dove il neutro si è perduto.”

Viene messa sotto accusa la violenza, che le donne orgogliosamente rivendicano come estranea alla propria cultura. “Lo studio dei popoli primitivi offre… la constatazione che il lavoro è una attribuzione femminile mentre la guerra è il mestiere specifico del maschio”; “La specie dell’ uomo si è espressa uccidendo, la specie della donna si è espressa lavorando e proteggendo la vita”.

Non vi sono ragioni per cui la radio debba essere femminile ed il telefono maschile, la botte femminile e il tino maschile. “Penna” e “mano” sono femminili, mentre “muro” e “telegramma” sono maschili, senza valide ragioni semantiche; peggio ancora una “sentinella” e un “donnone” hanno genere contraddittorio col sesso del designato. E’ anche difficile fare una comparazione tra le varie lingue; “peccato” e “sole” sono maschili in italiano e femminili in tedesco, “morte” e “luna” viceversa.

Recentemente si è parlato del “genere” soprattutto riguardo ai nomi di professioni esercitate da donne. Storicamente i vari mestieri e le varie professioni erano riservate quasi esclusivamente agli uomini, ed hanno perciò assunto caratteristiche e significati maschili.
Adesso che sempre nuove professioni sono assunte anche da donne, è difficile dire quali termini debbano designarle nell’ uso corrente. Umberto Eco ha osservato a questo proposito: “Da alcuni anni in America si combatte una battaglia per eliminare il “genere” nei titoli delle attività e professioni.

L’ espressione ‘chairman' (equivalente al nostro presidente) in realtà sottolineava che la funzione fosse eminentemente maschile. Ora è sempre più consueto sentir parlare di “chairwoman” quando il presidente è femmina e di “chairperson” quando si vuol lasciare indeterminato il sesso dell’ attuale o possibile portatore del titolo. In Italia invece la tendenza è stata opposta. Infatti è parso fosse riduttivo chiamare “avvocatessa” una donna avvocato, e si preferisce ora chiamarla ‘avvocato’, così come la si chiama ‘ingegnere’ o ‘architetto’”.

Nei giornali si scrive: “Il primo vigile donna in servizio a Roma”, rifiutando il termine “vigilessa”. Ed il motivo lo possiamo trovare nel dizionario.
Infatti alla parola “conte” troviamo il significato di “condottiero, signore di contea, titolo di nobiltà"; alla parola “contessa” invece “moglie del conte, signora di contea”. Allo stesso modo “baronessa” vuol dire “moglie del barone”, e così via.
Se leggiamo i libri dell’ 800 ci accorgiamo che il nome di “generalessa” spettava alla moglie del generale, “sindachessa” alla moglie del sindaco, per cui il suffisso “-ssa” non ha mai indicato in questo campo un’ attribuzione personale di titoli e di attività. Allo stesso modo nella società francese si diceva “Madame le Marechal, Madame le Colonel”, cioè persino il grado militare si trasferiva alla moglie dell’ ufficiale. Inoltre questo suffisso ha sempre avuto un significato spregiativo: anche Mussolini parlava ironicamente di “professoresse, avvocatesse, medichesse”.

In molti casi formare il femminile non sarebbe difficile, né controverso. Nei sostantivi derivati da un participio presente non vi è differenza fra i due generi; si dice “il presidente” e “la presidente”, “l’ insegnante” e “la insegnante”, “il cantante” e “la cantante”. La regola si potrebbe estendere facilmente a tutti i sostantivi da “femminilizzare” che terminano in e ( come già avviene per “la preside” e “la custode” si direbbe “la vigile” e “la studente”).
Secondo la logica, oltre che la grammatica, i nomi in o dovrebbero uscire in a al femminile: l’ inviata, la deputata, l’ avvocata, etc., e i nomi in -tore dovrebbero mutare in –trice (senatore, senatrice). Per questo molte donne si chiedono se sia accettabile l’ abitudine, ormai diffusa nella stampa, di equiparare i due sessi mantenendo invariato ( cioè al maschile) il nome della professione: ad esempio si legge “Il critico Rita Cirio”, “Dal nostro inviato Barbara Spinelli”, “Adelaide Aglietta segretario di partito”, “Il ministro Tina Anselmi”.

Il movimento delle donne ha anche chiesto che sia mutato quel passo della Costituzione Italiana dove si dice : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’ uomo”, al fine di eliminare ogni possibile equivoco, ed ha già ottenuta l’ abolizione, nel dizionario corrente degli inserti pubblicitari e delle offerte di lavoro, di ogni distinzione tra i sessi, con l’ unico termine ammesso di “persona”.

Le donne hanno anche l’ obiettivo di eliminare la differenza, presente nella lingua, fra “signora” e “signorina”. “Scusi, signora o signorina?” è la frase con cui sempre ci si rivolge ad una donna, e a volte si procede per tentativi e deduzioni, nel timore di sbagliare appellativo. Invece un maschio nel momento in cui non è più un ragazzo diventa automaticamente un “signore”, e nessuno si sogna di chiedergli: “ Lei è signore o signorino? ”. Infatti per un uomo conta soprattutto il suo stato sociale, la sua attività; il fatto che sia sposato o meno è visto come cosa marginale, che riguarda la sua vita privata.
Allo stesso modo le inglesi si sono battute per eliminare la divisione degli appellativi femminili di stato civile in due gruppi (Miss e Mrs.) ed unificarli in un Ms. corrispondente al maschile Mr.

Si è anche studiato come spesso le stesse parole acquistano diverso significato se applicate all’ uomo o alla donna, e perciò sono specchio di una precisa ideologia. Ad esempio, “insignificante”: al maschile significa “incapace, mediocre, senza qualità di spicco”, al femminile indica in genere “brutta”.

L’attribuzione dello stato civile di “non matrimonio” suona al maschile come “scapolo” e al femminile come “zitella”, con significati molto diversi. Il primo termine connota “libertà di movimento, vasta possibilità di occasioni sessuali, indipendenza” ed il secondo vale come “incapacità di aver trovato un uomo, bruttezza fisica, acidità, rifiutata, esclusa, sola”.
Recentemente le donne hanno pienamente rivalutato il termine di “zitella”, attribuendovi significati di libertà e di indipendenza, ed hanno anche coniato espressioni nuove, come “donna singola”, che proviene dall’ inglese “single woman”.

Coniare parole nuove è senza dubbio una cosa importantissima; sappiamo dalla linguistica che una cosa finché non viene nominata si sa che non esiste, e comincia ad esistere solo quando c’è il termine per definirla.

Nel libro La donna immobile troviamo l’origine del termine ”sorellanza”: “Da sempre esistono parole come fratellanza, fraternità, fraterno, persino fratricidio; non si conosce l’uso di parole come sorellanza, sorellità, sorerno, sorellicidio. Segno evidente che né la solidarietà, né la complicità,  né l’ affetto, né l’ eventualità di sbranarsi sono mai state previste e ritenute valide, sino a tenerne conto, tra donne.”

Nel libro Crimini contro le donne vi è la spiegazione del termine “femicidio”, che vale come “uccisione di una donna a causa del suo sesso”. Come esempi di ciò vengono portati i roghi delle streghe del passato, il costume dell’ infanticidio delle bambine, i crimini sessuali, le morti derivanti dalle mutilazioni sessuali presenti in alcune culture e dagli aborti clandestini

Nella recente mostra di Mestre sugli aspetti grafici e sonori del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio, si parla di “polo maschile”, legato alla radice linguistica di “pater”, che indica l’ univocità di un codice fermo, intoccabile, stereotipato. La femminilità di “mater”, invece, indica elasticità, vicinanza alla materia, accettazione del caso.

E’ stato esaltato il carattere di registrazione intima del diario, con gli straordinari quaderni zeppi di scrittura a mano di Patrizia Vicinelli, o il calendario di Berty Skuber, stratificato con minute notazioni giornaliere.

Nel campo della sociolinguistica, i cinque principali fattori di differenziazione in campo linguistico sono considerati essere: l’ età, il sesso, il gruppo etnico, la classe socio-economica, il livello di istruzione.

Platone nel “Cratilo” e Cicerone nel “De Oratore” osservarono anche la maggiore presenza nel linguaggio femminile di vocaboli e suoni arcaici.
Cicerone trova naturale questo fatto, dal momento che le donne facevano vita ritirata, meno esposta a stimoli esterni ed a contatti con altre forme di linguaggio.
Anche i moderni antropologi sono giunti alle stesse conclusioni, per cui si può parlare, per molte società (specialmente quelle di tipo più patriarcale), di un fenomeno di “conservazione” presente nella lingua delle donne, più lontane dalla vita pubblica, dai contatti esterni e dall’istruzione

Per questo motivo, gli autori delle inchieste dialettali compiute in Italia, Svizzera ed altri paesi europei per ritrovare gli antichi vocaboli e le cadenze dialettali, preferivano interrogare soggetti donne.

La dimostrazione di un livello culturale diverso fra uomini e donne ci viene offerta anche da alcuni drammi di Shakespeare, nei quali tutte le donne, anche le principali protagoniste del lavoro drammatico, si esprimono ad un basso livello linguistico.

Il caso delle “précieuses” francesi

L'opinione comune secondo cui la donna eccelle nelle capacità verbali e l’ uomo in quelle spaziali e motorie, come distinzione piuttosto netta tra “parlare” e “agire”; per questo si dice che “le parole sono femmine e i fatti sono maschi”

Mettiamo in ridicolo un bambino che piange, ci sembra normalissimo in una bambina. Se una bambina piagnucola le diciamo che è noiosa ma le diamo retta, se lo fa un bambino gli diciamo che è una femminuccia”. E ancora: “ Se una bambina si ribella alle nostre offerte di aiuto non richiesto per superare una difficoltà, glielo imponiamo lo stesso; se lo fa un bambino ce ne rallegriamo perché ci sembra già un piccolo uomo”.

Nietzsche nel libro Così parlò Zarathustra ha scritto : “La felicità dell’ uomo si chiama: ‘io voglio’, la felicità della donna si chiama ‘egli vuole’ ”.

Un abusato slogan dice: “ La donna è madonna o puttana, è angelo o demonio ”. Essendo per il maschio un essere alieno, misterioso e potenzialmente pericoloso, non può essere vista che in termini estremi, e se non è angelicata, eterea e spirituale passa immediatamente alla valutazione opposta.

E’ il medesimo meccanismo per cui in molti romanzi vittoriani si stabiliva la netta differenziazione tra “l’operaio buono” e “lo sfacciato sovversivo”, e per cui gli schiavisti hanno distinto gli “zii Tom” buoni e pazienti dalle “bestie nere” che minacciavano la rivolta.

La ginnasta Nadia Comaneci fu definita “la bambola meccanica” e la si descriveva in questo modo: “E’ decisamente competitiva, Nadia. E’ dura, seria, glaciale…. Mentre cerco, con scarsi risultati, di vedere dei barlumi di umanità, di calore, di partecipazione, in questo minuscolo robot … Con un’ espressione di odio così concentrato come nemmeno negli occhi dei pugili, dei lottatori. Erano gli occhi di Nadia. ”

In definitiva tale visione della donna ha portato ad attribuire all’uomo la forza e l’intelligenza ( che implicano il “fare” ) e a lei la bellezza ( che implica l’ “apparire” ). Ciò che alimenta la personalità è la varietà di problemi da affrontare e l’ acquisto di nuove conoscenze, cioè l’ esperienza. Per questo l’ uomo si è conosciuto e si è espresso nel mutevole “fare” e la donna, costretta alla fissità del ripetere, non ha potuto che conoscersi ed esprimersi nell’ “apparire”. Ciò persino modificando il suo volto e il suo corpo per adeguarsi a un modello dato.

Il processo di educazione alla vanità e alla cura di se stesse viene così descritto: “ Mentre fino ad allora era stata un maschietto, o meglio, un individuo indifferenziato, cominciò a presentare alcuni atteggiamenti considerati tipici delle bambine. Sedeva allo specchio per pettinarsi e mentre fino ad allora si dava energiche spazzolate a casaccio, senza nessun compiacimento per il proprio aspetto, cominciò a mettere in moto una mimica di compiacimento come evidentemente aveva visto fare alla madre e all’ assistente. Inarcava le sopracciglia, sbatteva le palpebre, si sorrideva, si osservava di tre quarti, avvicinava e allontanava il viso dallo specchio per osservarsi meglio. ”

Secondo gli elenchi di Giorgio Bocca e di M. A. Macciocchi la parola "cazzo" è un “sostantivo onnisignificante”, che sta per “niente” ( “i compagni hanno fatto un cazzo”) e per “tutto” ( “i compagni hanno fatto un cazzo di cose”), per “insomma” o “perbacco” (“che cazzo c’entro io”), per “che cosa ?” (“ma che cazzo dici ?”), per “brutto” (“uno spettacolo del cazzo”) e per “bello” (“un cazzo di spettacolo”), in senso di offesa (“saranno stati quei cazzi che abitano in quel tugurio") e di lode. ("Sei un tipo cazzuto").
Ritornando alle caratteristiche linguistiche nei testi della letteratura di consumo e nei fumetti, un altro uso del linguaggio molto diffuso nei personaggi femminili è quello al fine di inganno e di menzogna. Si tratta di un linguaggio spesso lezioso, bamboleggiato, di una finta ingenuità, che diventa addirittura musicale quando vuole ottenere qualcosa.
Anche lo sguardo che accompagna queste parole è falsamente ingenuo o esageratamente intenso, i gesti sono studiati. E’ la nostra cultura che produce questi comportamenti, incoraggiando l’ uso della seduzione da parte delle donne per ottenere qualcosa e l’esercizio della civetteria, mentre tali aspetti vengono severamente repressi nel maschio.
Il motivo principale che porta a vedere nel linguaggio femminile un mezzo per mentire sta in quella esclusione dal “fare” già trattata, per cui le donne, non potendo ottenere direttamente e con le proprie capacità un certo risultato, utilizzano altri mezzi (e l’ arma dell’ espressione verbale è tra le più potenti). Ad esempio nelle storie a fumetti contenute ne “Il Monello”, “L’ Intrepido” ed altri giornali simili, vi è una notevole sproporzione fra maschi e femmine per quanto riguarda il mentire.

Gli uomini infatti usano in genere la forza, l’ intimidazione o una qualche forma di influenza, al contrario le donne usano l’ inganno (addirittura molto spesso si nascondono dietro una falsa identità) o almeno fingono con frequenza sentimenti che non provano. Vi è anche un altro motivo: accade sovente che la donna “finga” per le oggettive difficoltà di corrispondere al modello assegnatole; soprattutto quella perfezione, quell’ autocontrollo che non le consente di abbandonarsi ad impulsi naturali.

Un tale modello assegna alle femmine un maggior grado di convenzionalità, una maggiore attenzione alle norme della società in cui vivono, una serie di atteggiamenti che non possono essere spontanei ( sarebbe impossibile ), bensì continuamente studiati. Anche quel continuo dover compiacere gli altri non può produrre che finzione. E’ facile notare che i gesti falsi, le posture del corpo studiate, sono molto diffusi nelle immagini femminili.
Le foto di modelle, attrici, non solo, ma anche di donne qualsiasi, mostrano varie espressioni: il capo appoggiato alla spalla o girato in alto, braccio sollevato, mani che toccano il capo o i capelli, oppure appoggiato al collo. Il corpo è disposto in maniera innaturale, il viso atteggiato ad espressioni di sorpresa o di mistero. I corrispondenti personaggi maschi non presentano nessuna di queste caratteristiche : non toccano parti di sé, mantengono il viso inespressivo e il corpo teso.

Possiamo situare l’ origine della linguistica moderna e di quella che si può chiamare semiotica o semiologia ( i due termini sono assimilabili anche se vari autori assegnano loro significati diversi ) allo stesso punto. Cioè alla pubblicazione del celebre Cours de linguistique générale del linguista Ferdinand de Saussure, nel 1916. in esso troviamo queste frasi :

“ La lingua è un sistema di segni esprimente delle idee e, pertanto, è confrontabile con la scrittura, l’ alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia, i segnali militari, etc.
Essa è semplicemente il più importante di tali sistemi. Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia ( dal greco sèmeion “segno”). Essa potrebbe dirci in che cosa consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora, non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia diritto ad esistere e il suo posto è deciso in partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla linguistica……”

Fino a Saussure, cioè fino a tutto il XIX ° secolo, la linguistica era stata essenzialmente storicistica, e considerava come studio principale la trasformazione delle lingue, che andava vista diacronicamente, cioè nel corso del tempo. Al contrario egli, dal momento che studia la lingua come una struttura ( vale a dire un insieme di elementi che sono in rapporto tra loro e che formano una totalità omogenea ), sposta la sua attenzione alla sincronia. Infatti una struttura è dominata da particolari leggi di equilibrio, che la spingono a mantenersi tale nonostante i mutamenti che avvengono al suo interno.

Queste leggi di equilibrio prevalgono su quelle di sviluppo ed hanno quindi priorità di studio.

Per prima cosa Saussure stabilì una separazione tra gli elementi sociali e quelli individuali del linguaggio, distinguendo la componente collettiva e sociale del linguaggio, la langue e quella individuale, la parole.

La langue è una istituzione sociale che l’ individuo non può né creare né modificare, un complesso di segni basato su una sorta di contratto collettivo, una convenzione appartenente a tutti i membri della comunità. La parole è invece l’ atto individuale e creativo del soggetto parlante, nella scelta fra tutte le possibilità che il codice della lingua offre e nella loro combinazione.

La fondamentale distinzione tra langue e parole è stata assunta dalla semiotica come categoria generale applicabile ad ogni sistema di significazione, in cui si distingue sempre tra un insieme collettivo di regole e la loro realizzazione pratica. Leggiamo infatti in Umberto Eco: “ Una volta ricordato come De Saussure distingue opportunamente la langue, che è il deposito di regole su cui si basa il parlante, e la parole, che è l’ atto individuale attraverso cui il parlante usa la langue e comunica ai suoi simili, avremo ritrovato la coppia codice-messaggio; e come per la coppia codice-messaggio anche la coppia langue – parole definisce l’ opposizione tra un sistema teorico… e un fenomeno concreto “.

Lo scrittore Tahar Ben Jelloun, originario del Marocco e profondo conoscitore delle tradizioni del suo Paese, ha fatto delle osservazioni a riguardo. « Ho steso un elenco delle diverse ragioni che attualmente spingono le donne marocchine a portare il velo: per convinzione religiosa ( la religione sta riempiendo il vuoto culturale del Paese ) ; per moda ( ci sono veli elegantissimi e una sorta di erotismo discreto ) ; per precauzione e per mostrare di essere persone serie quando si fa un colloquio di lavoro o ci si presenta a un esame ; per essere lasciate in pace dagli uomini che importunano le donne per strada, partendo dal presupposto che siano tutte puttane ; per obbedire ai genitori ; per affermare un’ identità diversa da quella europea ; per timore dei pettegolezzi dei vicini, etc. »

Esprimendosi poi sul burqa afgano, anch’ egli nota che vi è una precisa volontà di far scomparire la donna. Leggo nell’ “Espresso” del 14 maggio 2009: « I talebani immaginano un mondo dove la donna si è ritirata dal mondo. Esiste, ma in clausura nella casa e senza alcun diritto di uscire. »

L'obbligo del velo a partire dalla prima mestruazione, è una delle sorprese che ci riserva la Bibbia, una somiglianza evidente con la tradizione musulmana. L’ obbligo vale fino alla menopausa, e ciò significa proteggere da occhi maschili pericolosi il periodo fertile delle donne.

Anche nel libro “Dietro il velo”, già citato, si spiega che la comparsa del menarca significa che è giunto il momento di scegliere il primo velo e l’ abaaya, il lungo e nero mantello. « Da quel giorno – dice l’autrice – sarei stata considerata una minaccia e un pericolo per tutti gli uomini finché non fossi stata sposata e rinchiusa in una casa » .
La tendenza a tenere le donne segregate, che è attiva in tante, troppe culture, ha quindi la sua radice, il suo nucleo fondante, nella paura degli uomini, nel terrore di fornire tempo ed energia nell’ allevare figli non propri. E’ l’ incubo dell’ inganno, della donna che lo può tradire, e quindi ridicolizzare. Ricordiamo il famoso detto “Mater semper certa, pater incertus” degli antichi Romani.

Ricordo che anch’ io, da ragazza, nei primi anni ’60, ebbi a che fare con il tacito obbligo del velo in chiesa. Notavo infatti come le donne, entrando in chiesa, si coprissero il capo con un velo sottile, e lo facevo anch’io senza capirne il significato o chiedermi le motivazioni : credevo fosse per abbellirsi, per un tocco di eleganza.
Poi un giorno fu letta in mia presenza la Prima Lettera di Paolo ai Corinti (o Corinzi), ed allora capii. Paolo diceva: « Se una donna dunque non vuol portare il velo, si faccia anche tagliare i capelli; ma se è vergognoso per una donna essere rasa, si copra col velo".

L'uomo invece non deve coprirsi la testa, perché è immagine e gloria di Dio; mentre la donna è gloria dell’ uomo. Infatti l’ uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna ad esser tratta dall’ uomo; né fu creato l’ uomo per la donna, ma bensì la donna per l’ uomo. Quindi la donna deve portare sul capo il segno della potestà per riguardo degli angeli »

Ha affermato Chiara Saraceno: « Le donne sono l’anello debole della società perché sono l’anello forte della famiglia. Mantengono insieme il tessuto delle cure reciproche, delle relazioni. Per questo sul mercato del lavoro trovano discriminazioni.


Simone de Beauvoir scrisse con acume ne Il secondo sesso , riferendosi alla mitologia che narra la creazione della donna
( Pandora per i Greci, Eva per gli Ebrei ) : « Nemmeno la sua nascita è stata autonoma ; Dio non ha scelto spontaneamente di crearla per un fine proprio, autonomo, limitato a lei sola, e per esserne adorato direttamente, in compenso. L’ ha destinata all’ uomo, l’ ha regalata ad Adamo per salvarlo dalla solitudine».

« Non è la madre che crea/ il figlio, come si pensa. / Ella è solo nutrice e niente altro, della creatura paterna/ …Soltanto chi getta il seme nella terra fertile è da considerarsi genitore./ La madre coltiva, ospite all’ ospite, il germoglio, / quando non l’ abbia disperso un demone.

 «Questa frase (…) segna un punto di svolta che ha marcato la storia della maternità in Occidente. Presso i Pelasgi del II millennio, popolo antenato dei greci, chi creava il mondo era la dea Eurinome, nel cui uovo erano compresi tutti i mari, le montagne, i fiumi, le foreste del mondo. Solo lei poteva fare maturare quell’ uovo, romperne il guscio e spargere i beni di cui avrebbero vissuto gli esseri umani.
Apollo, il nuovo dio della democrazia ateniese, invece sancisce un principio che avrà conseguenze disastrose per le donne dei millenni a venire ; non è la madre che crea il figlio. Il suo ventre è da considerarsi solo un vaso che custodisce il seme paterno. Ecco come nasce una società dei Padri

la psicologa Gianna Schelotto, commentando una puntata di “Amore criminale” in TV, faceva notare che le donne, da sempre dedicate a un lavoro di cura, di aiuto, di protezione delle persone, spesso non hanno la capacità, la forza, di mettere al primo posto se stesse e le proprie necessità, e finiscono per sacrificare il loro benessere, la loro esistenza, la loro vita. Devono rendersene conto, non farsi trascinare da questa pulsione di sacrificio, ma combattere per se stesse ; poiché, se non lo fanno loro, mai la situazione potrà mutare.
Inoltre ella faceva notare che , mentre negli uomini esistono le “perversioni sessuali”, studiate sin dall’ epoca di Freud, e di cui siamo ben consapevoli, nelle donne – ed è meno evidente- esistono le “perversioni sentimentali”, la capacità ( “perversa”, è giusto dire ) di sopportare a dismisura situazioni umilianti, di procrastinare la ribellione a soprusi ed accanimenti di vario tipo.

In quest’ ultimo anno si è aperto un vivace dibattito sul libro di una psicologa canadese, Susan Pinker, dal titolo “Il paradosso dei sessi” ( titolo originale “The Sexual Paradox. Men, Women and the Real Gender Gap”) , scritto nel 2008 e stampato in Italia all’ inizio del 2009, da Einaudi.
Su questo testo ha scritto un articolo su “Repubblica” la giornalista Maria Novella De Luca, la quale spiega che, secondo Susan Pinker, è un ormone, l’ ossitocina, che fa preferire alle donne gli affetti piuttosto che il denaro e il successo".

Un illuminante articolo (apparso ne “Il Corriere della Sera” del 22/02/2008) di Dacia Maraini riflette su come nella nostra cultura occidentale si è perpetuato il dominio maschile sull’ atto del generare.
Ella riporta un brano tratto da una antica tragedia greca risalente al 458 a.C., che l’ autore, Eschilo, fa pronunciare al dio Apollo e cioè che gli uomini e le donne non sono uguali, e che la “non parità tra i sessi, in termini di successo, lavoro, carriera e denaro sarebbe figlia di uno “scarto biologico” tra maschi e femmine e non di secolari disuguaglianze storiche e culturali.

Scrive la Pinker: "Se il successo nel lavoro rispecchiasse quello scolastico, le donne oggi governerebbero il mondo, perché allora quasi sempre avviene il contrario ? (…) Le donne hanno ovunque superato i maschi per numero di lauree e rendimento scolastico, hanno scalato professioni come la chirurgia o l’ ingegneria, eppure nella maggioranza dei casi si fermano un gradino prima della vetta, o una volta raggiunto il top dicono “ora basta, torno a casa, voglio stare con i miei bambini”.

La Pinker afferma che buona parte della vita delle donne sarebbe “comandata” da un ormone, l'ossitocina, “che compare durante l’ allattamento e il parto, il sesso e gli abbracci e quando si accudiscono i piccoli".

Alcune configurazioni si sono evolute nel cervello delle donne per assicurare la sopravvivenza dei neonati.

"C'è una differenza ”ormonale” insita nel cervello per cui le donne sarebbero maggiormente spinte a scegliere strade di vita e di realizzazione sociale che magari le rendono più felici, ma le lasciano immancabilmente fuori dalle stanze del potere».

E’ l’ ossitocina , “l’ elisir dell’ appagamento”, il mezzo attraverso cui l’ evoluzione rende piacevole e invogliante il contatto con il neonato e il nutrirlo. (…) E quando una madre smette di allattare deve rinunciare al piacevole effetto analgesico che l’ ossitocina induce nel suo cervello .”

Francesca Zajczyk, docente di Sociologia urbana all’ Università Bicocca di Milano, autrice del libro 'La resistibile ascesa delle donne in Italia. Stereotipi di genere e costruzione di nuove identità', scherza sulla faccenda dell’ “ ormone che frena la carriera delle donne” e afferma: « Quelle che ce la fanno sono sempre di più: giovani donne che riescono a raggiungere il vertice della carriera e che allo stesso tempo costruiscono una famiglia. E questo nonostante l’ ossitocina. Molte seguono un percorso non lineare e alternano una fase di dedizione alla professione a una in cui la maternità è una priorità per poi rientrare a pieno ritmo al lavoro.»
Per la sociologa, quindi, « l’appagamento legato alla maternità è una realtà. Ma, più che una questione di ormoni, è uno stereotipo culturale per cui è naturale che una donna si occupi a tempo pieno di un figlio. L’ immagine sociale che le donne hanno di loro stesse, spesso, è anche una profezia che si autoavvera». Spesso sono proprio le donne a fare un passo indietro, ma per Francesca Zajczyk è un meccanismo complesso, che non può essere spiegato solo facendo appello all’ ossitocina.

« Ci sono ricerche europee a cui io stessa ho partecipato che rivelano come esista ancora una difficoltà da parte della madre a delegare la cura del figlio al compagno. Anche questo è uno stereotipo culturale che dobbiamo rimuovere per cercare di convincere gli uomini a partecipare maggiormente alla crescita dei bambini e per liberare le donne ».
Altre donne fanno notare che sicuramente c’è stata anche una “selezione sociale” nel corso delle epoche, poiché per le donne spesso la società costruisce la trappola del “ruolo”. « E’ certo – osservava la scienziata Rita Levi Montalcini in una intervista - che l’ homo sapiens, nei suoi tre milioni di anni di vita, ha selezionato, premiando la donna che accettava il ruolo e penalizzando quella che lo rifiutava».




2 commenti:

  1. Interessante, la lettura mi è piaciuta tutta, mi sento più informato, e sono d'accordo con l'eliminazione delle differenze tra i generi ;) Donna, uomo o trans poco conta, vince la Persona

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  2. A proposito, una domanda:
    'amore fraterno', o 'affetto fraterno', qual'è la versione femminile del termine?

    Nel caso si parli di sorelle si può dire 'affetto sorello', è corretto oppure il termine 'fraterno' è univoco per entrambi i sessi?

    E poi ancora: è corretta la parola sorellità, cioè equivalente femminile di fraternità?
    Attendo chiarimenti.

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