venerdì 31 ottobre 2014

A che serve una coscienza raffinata?

"...Solennemente dichiaro che molte volte ho voluto diventare un insetto. Ma neanche quest’onore m’è stato concesso. Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo, il quale abbia, per sopramercato, la disgrazia d’abitare a Pietroburgo, la più astratta e premeditata città dell’intero globo.

...sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia. Insisto su questo punto. Ma lasciamo da parte ciò per un istante. Dite un po’ adesso: da che viene che, neanche a farlo apposta, proprio nei momenti, sì nei precisi momenti in cui ero disposto a prender coscienza di tutte le sottigliezze “del bello e del sublime”, come si diceva noi un tempo, mi capitasse non già di figurarmi, ma addirittura di compiere azioni basse e che… be’, insomma, che magari tutti compiono, ma che a me, neanche a farlo apposta, toccava d compiere proprio nel punto che avevo la coscienza più chiara di non doverle compiere? Quanto più avevo coscienza del bene e di tutte quelle tali cose “belle e sublimi”, tanto più affondavo nel mio fango e tanto più ero disposto a metterci radici. Ma il punto principale era questo, che tutto ciò non pareva capitarmi per caso, ma anzi come se così dovesse essere. Quasi quello fosse il mio stato normale, e nient’affatto una malattia o uno stato morboso, cosicché alla fine, mi passò anche la voglia di lottare contro questo supposto stato morboso. Andò a finire che quasi mi convinsi (e forse anche me ne convinsi completamente) che quella, perché no, era la mia condizione normale. Ma sulle prime, quante pene patii in questa lotta! Non potevo credere che per gli altri fosse lo stesso, e tutta la vita tenni nascosto quanto mi capitava come un segreto. Mi vergognavo (forse mi vergogno ancora adesso); arrivai al punto che provavo una sorta di segreta, morbosa, bassa voluttà a tornarmene nel mio angolo, in qualche sordida notte pietroburghese, e a dover per forza riconoscere che, ecco, anche quel giorno avevo commessa un’altra azione vile, che ormai non c’era più rimedio, e a rodermi internamente per questo, a dilaniarmi coi denti, a struggermi, a succhiarmi tanto che l’angoscia, alla fine, si mutava in una tal quale dolcezza vergognosa e maledetta e, in conclusione, in vera e propria voluttà! Sì, in voluttà, in voluttà! Insisto su questo punto. Io perciò ho cominciato a parlare, perché voglio sapere con precisione se anche gli altri provano tali voluttà. Mi spiego: la voluttà mi veniva qui proprio dal senso troppo chiaro della mia bassezza; dal fatto che sentivo da me d’essere arrivato al limite estremo; e che seppure orribile, la cosa non poteva stare diversamente; che non avevo più via di uscita, che ormai non sarei più diventato un altr’uomo; che se anche mi fossero bastati il tempo e la fede, certo non avrei voluto io stesso mutare; e se anche avessi voluto, non avrei combinato nulla neppure in questo caso, perché, di fatto, forse non c’era nulla in cui mutarsi."

Così riflette il protagonista dei «Ricordi dal sottosuolo», dopo essersi definito dapprima un malato, poi un malvagio e infine un uomo odioso (F. Dostoevskij, «Ricordi dal sottosuolo»; traduzione di Tommaso Landolfi)

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