giovedì 13 febbraio 2025

Il Caso Levi

Il “Caso Levi” è sembrato per molto tempo sufficientemente chiaro. Un giovane ebreo italiano, di buona famiglia borghese e di cultura medio-alta, una laurea in chimica, viene deportato ad Auschwitz, sopravvive miracolosamente e, tornato nella sua Torino, rende conto di quell’esperienza in toni francamenti inusuali: nessun accenno di retorica o di vittimismo, nessuna enfasi sulle proprie sofferenze personali, nessun tentativo di impressionare il lettore con gli artifici retorici deputati alla commozione e al sentimento. Colpivano in lui il tono oggettivo di un referto che assumeva il distacco di una relazione antropologica, l’assoluta equanimità, la strenua volontà di capire piuttosto che di condannare…

Esistono milioni di testimoni al mondo, ma pochissimi riescono a tradurre quello che vedono in una esperienza utile alla collettività cui appartengono: in una scrittura, appunto…

Quella di Levi ci appare oggi come la vicenda di uno scrittore che sembra chiaro, limpido, tutto esposto e dichiarato com'è, quasi risolto e pacificato nella sua missione di testimone, che sente il dovere civile di raccontare la sua esperienza con un massimo di trasparenza comunicativa, facilitato in questo dalla sua stessa formazione tecnico-scientifica. Ma come gli scritti raccolti In questo volume dimostrano anche, lo scrittore è molto più complesso, stratificato, sofisticato dell'immagine che ce ne siamo fatti e che lui stesso ha autorizzato. È un poliedro con un numero di facce tuttora incalcolabili, un pianeta che, man mano che le sonde si avvicinano, rivela quanto vaste siano le esplorazioni che ancora si richiedono. È chiaro che quando diciamo che l'immagine che lo stesso Levi ci ha fornito è in qualche modo deformante, quell'effetto si deve a un doppio movimento che è in pari tempo inconscio e meditato. 

Daniele Del Giudice ci ha invitato a considerare quanta fantasia letteraria, quanta capacità di progetto e di realizzazione sia necessaria per dire l’indicibile, cioè Auschwitz. Altro che nuda e spoglia cronaca di un testimone.

Per molti anni è sfuggito ai più che Se questo è un uomo è di fatto un trattatello filosofico-antropologico su un'esperienza estrema, i comportamenti umani quando sono immersi nel reagente di una situazione eccezionale, cioè un'opera attentamente consapevolmente costruita. Alla fine lo ammetterà lo stesso autore, quando confesserà a Germaine Greer (1985): “Durante questi quarant’anni ho costruito una sorta di leggenda attorno a quest'opera, affermando che l’ho scritta senza alcuna pianificazione, di getto, senza meditarci sopra. Le altre persone con le quali ho parlato di questo libro hanno accettato la leggenda. In realtà, la scrittura non è mai spontanea. Ora che ci penso, capisco che questo libro è colmo di letteratura, letteratura che ho assorbito attraverso la pelle anche quando la rifiutavo e la disdegnavo”.

Il giovane deportato che parte per Auschwitz è un uomo che viene dirottato non solo dalla propria vita, ma da una possibile carriera di scrittore, dalla legittimità di aspirazioni non dichiarate nemmeno a se stesso. E tuttavia possiede l'occhio dello scrittore, che tra gli infiniti dettagli, tra i detriti insignificanti dell'esperienza quotidiana, sceglie a colpo sicuro i dettagli, i materiali di costruzione che gli serviranno per organizzare la propria pagina. La condizione di spirito eccezionalmente viva ed attenta che, per sua stessa ammissione, Levi mantenne ad Auschwitz nel suo anno di prigionia, è proprio la disposizione di uno scrittore che è già al lavoro prima di mettersi al tavolino. 

Quando riesce a tornare a casa, Levi è costretto a cambiare progetto, a subordinare la sua scrittura e la sua fantasia alle funzioni del Testimone: per autoterapia, per liberazione interiore, ma anche per rendere pubblico servizio ai contemporanei; e così facendo resta a lungo prigioniero di quella funzione civile. Che paradossalmente gli offre anche un alibi per rimandare il debutto dello scrittore vero e proprio. Perché nella difficile Italia della ricostruzione quello dello scrittore a tempo pieno appare un lavoro impensabile, un sogno trasgressivo, addirittura peccaminoso. 

Non diversamente da Levi lo hanno sentito altri figli di buona famiglia, Flaubert o Gadda: un loisir, un lusso, un piacere troppo costoso. Così Levi, quando con il successo de La tregua arrivano le prime interviste, continua a proclamarsi scrittore d'occasione o della domenica, chimico che scrive, uomo dimidiato che non rifiuta quella speciale condizione né se ne duole troppo, centauro che non vuole tradire né il dirigente industriale né lo scrittore. Lo fa, certo, per umiltà, per modestia, per prudenza, perché non vuole urtare la suscettibilità dei piccoli kapos di un ambiente letterario che sente profondamente estraneo; ma non solo per quello. Vorrà attendere la pensione (1975) per abbracciare dichiaratamente il nuovo e unico status di scrittore a tempo pieno, per non occultare più la sua vera identità.

Primo Levi: un’antologia della critica a cura di Ernesto Ferrero



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