“Nell'aula poco ospitale del liceo di Calw noi alunni, un mattino, stavamo scrivendo un compito. Erano i primi giorni di scuola dopo una vacanza, avevamo da poco consegnato le nostre pagelle blu che i nostri padri avevano dovuto firmare, non avevamo ancora ripreso l'abitudine alla prigionia e alla noia e quindi ne soffrivamo più del solito.
Anche l'insegnante, un uomo ancora lontano dalla quarantina ma che a noi ragazzi di undici o dodici anni pareva vecchissimo, era più depresso che di cattivo umore; lo vedevamo seduto lassù sul suo trono, con il volto giallognolo, chino sui quaderni con un'espressione sofferente.
Da quando gli era morta la giovane moglie viveva solo con l'unico figlio, un ragazzo pallido dalla fronte alta e gli occhi di un azzurro slavato. Teso e infelice sedeva l'austero uomo, lassù nella sua solitudine, stimato ma anche temuto: quando era irritato o addirittura iroso poteva accadere che un lampo di infernale barbarie trafiggesse il classico atteggiamento di umanista, smentendolo.
C'era silenzio nella stanza che odorava di inchiostro, di corpi e cuoio di scarpe, di rado si udiva un rumore liberatorio: il tonfo di un libro caduto sul pavimento polveroso, di legno d'abete, il sussurro di un dialogo furtivo, l'ansito di un riso a fatica represso che sollecitava e costringeva a voltarsi, e ognuno di questi rumori veniva percepito dal personaggio troneggiante che subito lo zittiva, il più delle volte solo con uno sguardo, un ammonimento espresso spingendo in avanti il mento, oppure un dito minacciosamente sollevato, di tanto in tanto con un colpetto di tosse o una breve parola.
Quel giorno, se Dio vuole, tra la classe e il professore non v’era aria di temporale, ma pur sempre quella lieve tensione nell'atmosfera dalla quale si possono sviluppare cose sorprendenti e di solito indesiderate. Non ne ero certo, ma avevo l'impressione di preferire quella situazione alla calma e armonia più completa. Forse era pericolosa, forse poteva accadere qualcosa, ma tutto sommato noi ragazzi, soprattutto durante un compito scritto, non desideravamo niente con tanto ardore quanto interruzioni e sorprese, di qualunque tipo esse fossero, perché era grande la noia e l'irrequietezza repressa nei ragazzi troppo a lungo e troppo severamente costretti a rimanere seduti, fermi e in silenzio.
Non ricordo che genere di compito ci avesse dato il nostro insegnante che nel frattempo, arroccato nella sua fortificazione di legno, si occupava di cose d’ufficio. Certo non era un compito di greco perché era presente la classe al completo, mentre nelle lezioni di greco eravamo solo noi quattro o cinque “umanisti” a fronteggiare il maestro. Eravamo al primo anno di greco, e la separazione di noi “grecisti” o “umanisti” dal resto della classe aveva conferito un tono nuovo all’intera vita di scuola. Da una parte noi pochi grecisti, futuri parroci, filologi e accademici vari, ci sentivamo già allora separati dalla massa dei futuri conciatori, tessitori, commercianti o birrai, ciò che significava un onore, uno stimolo e un impegno perché eravamo l'élite destinata a scopi più alti dell'artigianato e del far soldi; d'altro canto questo onore presentava evidentemente anche un aspetto preoccupante e pericoloso.
Sapevamo che in futuro ci attendevano esami di leggendaria durata e difficoltà, soprattutto il temuto esame regionale, per il quale l'intera scolaresca umanistica della Svevia conveniva a Stoccarda, per la competizione durante la quale, nel corso di vari giorni di esami, veniva setacciata la vera e ristretta élite; un esame dal cui risultato, per la maggior parte dei candidati, dipendeva l'intero futuro, poiché quasi tutti coloro che non riuscivano a varcare quell’angusta soglia erano costretti a rinunciare al loro programma di studio…
Noi pochi grecisti, dall'inizio dell'anno scolastico, eravamo dunque avviati su quello stretto sentiero verso la gloria e, di conseguenza, eravamo entrati in un rapporto assai più intimo e quindi anche assai più delicato con il nostro direttore di classe. Era lui infatti a impartirci lezioni di greco, e noi pochi non stavamo più in mezzo alla classe, alla massa, che in quanto tale era almeno in grado di opporre al potere dell'insegnante la quantità, no, eravamo isolati, deboli ed esposti di fronte all'uomo che dopo poco tempo conosceva ognuno di noi molto meglio di tutti gli altri compagni.
In quelle ore spesso esaltanti e ancora più spesso terribilmente allarmanti ci offriva il meglio del suo sapere, della sua vigile cura, della sua ambizione e del suo amore, ma anche i suoi capricci, il sospetto e la suscettibilità; eravamo gli eletti, eravamo i suoi futuri colleghi, eravamo la piccola schiera di persone di maggior talento o ambizione, destinate a scopi più alti alle quali offriva più che al resto della classe la sua dedizione e cura ma dalle quali si attendeva anche molta più attenzione, diligenza e voglia di imparare, e anche molta più comprensione per la sua persona e il suo compito.
Noi umanisti non dovevamo essere alunni qualunque che si fanno tirare e trascinare dall’insegnante fino al minimo di erudizione prescritto, ma compagni di viaggio zelanti e grati lungo l'impervio sentiero, consapevoli della nostra posizione particolare come di un alto dovere. Avrebbe desiderato umanisti che gli ponessero il compito di domare e frenare di continuo la loro bruciante ambizione, alunni che attendessero e afferrassero famelici ogni più piccolo boccone di cibo spirituale, trasformandolo subito in nuove energie intellettuali.
Non so fino a che punto l'uno o l'altro dei miei compagni grecisti fosse intenzionato e predisposto a corrispondere a questo ideale, ma presumo che agli altri le cose non andassero in modo molto diverso che a me; probabilmente avranno tratto dal loro essere umanisti una certa ambizione e un certo orgoglio di casta, si saranno sentiti individui migliori e preziosi, e nei momenti migliori da questa alterigia avranno anche sviluppato un certo senso del dovere e di responsabilità; tutto sommato però rimanevano sempre scolari di undici o dodici anni, e per il momento ben poco ci distingueva dai nostri compagni di classe non umanisti.
Posto davanti alla scelta tra un pomeriggio libero e una lezione straordinaria di greco, nessuno di noi fieri grecisti avrebbe esitato un attimo prima di decidersi con gioia per il pomeriggio libero. Sì, avremmo fatto senz'altro così - eppure nel nostro giovane animo era presente anche un altro elemento, un po' di quello che il professore si attendeva ed esigeva da noi con tanta passione e spesso con tanta impazienza. Per quanto mi riguardava non ero più intelligente di altri né più maturo dei miei anni, e mi si sarebbe potuto con facilità tirare via dalla grammatica greca di Koch e dalla dignità dell'umanista con molto meno della beatitudine di un pomeriggio libero - e tuttavia talvolta, in certe pieghe del mio essere, ero anche Pellegrino in Oriente e un castalio e mi preparavo inconsapevolmente a diventare membro e storiografo di tutte le accademie platoniche.
A volte udendo il suono di una parola greca o dipingendo lettere greche nel mio quaderno disseminato di severe correzioni del professore, sentivo la magia di una terra d'origine, di una comunione spirituale, ed ero pronto a obbedire al richiamo dello spirito e alla direzione del maestro senza alcuna riserva né desiderio di distrazione. Così nel nostro sciocco sentimento elitario e nella nostra effettiva distinzione, nel nostro isolamento e nell'abbandono pieno di timore allo scolarca, tanto spesso temuto, brillava tuttavia un raggio di luce vera, un presentimento di vera vocazione, un afflato di vera sublimazione.
Al momento certo, durante quella lezione mattutina noiosa e poco allegra, mentre al di sopra del mio compito già da tempo terminato ascoltavo i piccoli rumori attutiti dell'aula e i suoni lontani e gai del mondo esterno e della libertà - il fruscio delle ali di una colomba o il canto di un gallo, ad esempio, oppure lo schiocco della frusta di un carrettiere - non pareva che i buoni spiriti avessero mai albergato in quella stanza bassa. Una traccia di nobiltà, di spiritualità, aleggiava soltanto sul volto un po' stanco e preoccupato del professore, che io osservai di nascosto con un senso di partecipazione misto a un senso di colpa, pronto a evitare in tempo l'eventuale sollevarsi del suo sguardo.
Senza pensare niente, senza alcuna intenzione precisa mi abbandonai semplicemente all'osservazione, al compito di inserire quel volto di insegnante, non bello ma neppure privo di nobiltà, nel mio album di immagini, dove è rimasto per oltre sessant’anni: il ciuffo di capelli sottili spioventi a ciocche sulla fronte pallida e ossuta, le palpebre un po' vizze con le ciglia rade, il volto giallognolo, smunto, con la bocca estremamente espressiva che sapeva articolare con tanta chiarezza e sorridere in modo così rassegnato e insieme sarcastico, il mento rasato, energico. L'immagine si impresse dentro di me, una tra le tante, giacque per anni e decenni inutilizzata nell'archivio senza stanze e ogniqualvolta, venuta la sua ora, la evocavo, si rivelava sempre presente e nitida, come se un attimo prima ne avessi avuto davanti l'originale.
Mentre, osservando l'uomo in cattedra, assorbivo i tratti del suo volto, sofferenti e percorsi dalla passionalità ma dominati dal lavoro e dalla disciplina spirituale, e lasciavo che formassero dentro di me un'immagine duratura, la stanza squallida si faceva meno squallida e meno vuota e noiosa la lezione. Da molti decenni quell'insegnante è sotto terra, e con ogni probabilità degli umanisti di quella classe sono rimasto l'unico in vita e con la mia morte quell'immagine svanirà per sempre”.
Hermann Hesse Aula di un liceo
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