La donna, nella Roma antica, non esercitava alcun ruolo ufficiale nella vita politica e non poteva svolgere alcuna funzione amministrativa: né nell'assemblea dei cittadini, né nella magistratura, né nei tribunali. Tuttavia la donna romana non è confinata nel gineceo come era stata la donna greca, né come sarà più tardi la donna nelle civiltà islamiche, murata dentro un harem; può partecipare alle feste, agli spettacoli, ai banchetti, sebbene non abbia altro diritto oltre quello di starvi seduta, mentre la consuetudine a quel tempo vuole che si mangi sdraiati.
Nell'antica Roma, la patria potestàs, il potere del padre era assoluto sulla famiglia e in particolare sui suoi figli al momento della nascita; tutti i giuristi hanno notato quella che si chiama la “scomparsa forzata delle figlie minori”; in effetti, se il padre era tenuto a conservare alla nascita i figli maschi in ragione dei bisogni militari (eccetto se erano malformati o giudicati troppo gracili), generalmente lasciava in vita una sola figlia, la maggiore; è del tutto eccezionale trovare menzionate due figlie in una famiglia romana.
È significativo che ogni ragazzo riceva un praenomen (prenome), distintivo di personalità che lo differenzia dai suoi fratelli, mentre la figlia, generalmente la primogenita, porta soltanto il nome della famiglia paterna; per esempio, nella gens Cornelia, la figlia si chiama Cornelia, i suoi fratelli sono Publius Cornelius, Gaius Cornelius, ecc. Niente nome di persona per la ragazza dunque, ma soltanto del padre.
Soltanto verso l'anno 390, alla fine del IV secolo, la legge civile toglie al padre di famiglia il diritto di vita e di morte sui suoi figli. Con la diffusione del Vangelo, scompariva la prima e la più decisiva delle discriminazioni tra i sessi: il diritto di vivere veniva dunque accordato tanto alle femmine che ai maschi.
Régine Pernoud La donna al tempo delle cattedrali
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