sabato 18 gennaio 2025

Bottoni che si polverizzano

Nel giugno del 1812 l'esercito di Napoleone disponeva di 600.000 uomini. Sei mesi dopo, all'inizio di dicembre, la Grande Armata che era stata l'orgoglio della Francia si era ridotta a meno di 10.000 uomini. Queste furono le conseguenze della campagna di Russia.


Che cosa causò lo sfacelo della più grande armata che fosse mai stata guidata da Napoleone? Qualcuno ha sostenuto che la causa di quello sfacelo è legata a una questione di bottoni. I bottoni delle uniformi - dai cappotti degli ufficiali di Napoleone ai calzoni e alle giubbe dei suoi fanti - erano di stagno.


Quando le temperature sono molto basse, lo stagno, anche se il processo è alquanto lungo, tende a polverizzarsi. 


Accadde dunque ai soldati francesi, in conseguenza della perdita dei bottoni che si erano polverizzati, di essere costretti a usare le mani per tenersi gli indumenti, anziché per impugnare le armi?


Fu per questo motivo che i francesi non riuscirono a portare i principi della Rivoluzione in Russia e liberare, quindi, da una condizione di quasi schiavitù, la stragrande maggioranza della popolazione russa? 


Penny Le Couteur, Jay Burreson - I bottoni di Napoleone. Come 17 molecole hanno cambiato la storia



venerdì 17 gennaio 2025

I battaglioni neri

Dispiegati di volta in volta per conquistare nuovi territori, reprimere moti nazionalisti o risolvere con la forza le dispute territoriali tra i due principali imperi globali dell'epoca, gli eserciti coloniali francesi e britannico erano in grado di mobilitare nel loro insieme diversi milioni di uomini su scala planetaria. Nessun generale, tuttavia, aveva mai ipotizzato di utilizzarli sul suolo europeo. Con l'eccezione di un intrepido colonnello francese. Il suo nome era Charles Mangin

Nel 1910 aveva dato alle stampe il controverso pamphlet La force noire, suggerendo per primo che la Francia avrebbe dovuto affrettarsi a trasferire un contingente delle proprie armate nere in Europa per non farsi trovare impreparata nel caso dell'atteso ennesimo conflitto con la Germania. 

La questione era meramente demografica. Con i suoi sessantacinque milioni di abitanti l'Impero tedesco era in grado di reclutare quasi il doppio dei coscritti che la Francia poteva mobilitare tra i propri trentanove milioni di cittadini. A meno che Parigi non decidesse di estendere una qualche forma di leva ai sessanta milioni di indigenes delle colonie africane aggirando una volta per tutte l'ostacolo della superiorità numerica del nemico. 

Nella visione di Mangin i tirailleurs dell'Armée d’Afrique non erano la feccia umana dell'Impero da sacrificare sul fronte al posto del proletariato bianco francese. Tutt'altro. Con la loro rettitudine e il loro attaccamento alla Francia forgiato sui campi di battaglia nelle guerre coloniali, essi rappresentavano agli occhi del colonnello la prova vivente dei progressi compiuti dalle arretrate popolazioni africane sotto la spinta della missione civilizzatrice che Parigi si era intestata. 

Quattro anni dopo l'uscita del pamphlet, la carneficina sul fronte occidentale convinse i vertici dell'esercito francese a superare le ultime remore e ad autorizzare i trasferimenti dall'Africa.

Le prime navi militari con a bordo migliaia di soldati arabi e berberi, vestiti con le divise color cachi dell'Armée d’Afrique e l'inconfondibile mostrina con la mezzaluna simbolo dell'Islam, attraccarono al porto di Marsiglia alla fine di agosto del 1914.

Del pantano delle trincee allagate, oltre i reticolati di filo spinato ricoperti di neve, li attendevano i contadini e i proletari francesi della generazione in armi dei coscritti. Tra di loro si chiamavano poilus e poilus negres (poilus “pelosi”, in francese, erano chiamati in gergo i fanti francesi sul fronte avvezzi a lasciar crescere i baffi e la barba nei lunghi mesi in trincea).

Nel giro di un paio di anni la Francia completò il trasferimento sul fronte occidentale di 480.000 soldati reclutati delle colonie. Metà di loro proveniva dal Maghreb. Erano 170 mila algerini, 72 mila tunisini e 37 mila marocchini. Gli altri arrivavano per lo più dall'Africa occidentale francese, dal Madagascar e dalle Comore e da Gibuti. Più un contingente di 43 mila indocinesi.

L'esercito tedesco avrebbe potuto a sua volta impiegare i propri battaglioni neri: le cosiddette Schutztruppen di cui la Germania aveva ampia disponibilità nelle colonie in Tanzania, Ruanda, Burundi, Togo, Camerun e Namibia. 

Le truppe dell'armata nera tedesca però non lasciarono mai l'Africa. E non soltanto perché le navi da guerra britanniche, che detenevano il controllo delle rotte oceaniche, glielo avrebbero impedito. Ma anche perché l'idea di fare arrivare una massa di uomini primitivi nel cuore bianco della civilissima Europa era un tabù troppo grande da infrangere. 

Dall'antica bolla papale Dum diversas, con la quale nel lontano 1452 Papa Niccolò V aveva sdoganato la tratta degli schiavi tra le due sponde dell'Atlantico, autorizzando nel nome di Dio il re del Portogallo Alfonso V a “ridurre in perpetua schiavitù” i popoli “saraceni, pagani e altri infedeli” dell'Africa, erano passati oltre quattro secoli. E nel frattempo agli argomenti religiosi che fino ad allora avevano giustificato il colonialismo si erano aggiunti i dati empirici delle ultime scoperte in campo medico e antropologico. 

Le teorie del razzismo scientifico avevano iniziato a circolare tra l'Europa e le Americhe a partire dalla metà dell'Ottocento…

Le ricerche di studiosi poligenisti come Arthur de Gobineau in Francia, Samuel Morton negli Stati Uniti, Carl Vogt in Germania avevano finito per convincere l'opinione pubblica più istruita che l'umanità fosse divisa in razze con distinti percorsi evolutivi. E che, tra tutte le razze, quella africana fosse la più primitiva. I neri non erano che una sorta di specie intermedia tra la scimmia e l'uomo. E come tali non potevano che assecondare il disegno della natura, di Dio e della storia, sottomettendosi al primato genetico, tecnico e morale delle superiori razze bianche europee. 

Gabriele Del Grande - Il secolo mobile

giovedì 16 gennaio 2025

Quando i gamberi cambiano il guscio

“L'adolescenza è la fase di passaggio che divide l'infanzia dall'età adulta e ha come momento centrale la pubertà. A dire il vero, i suoi confini sono piuttosto vaghi.

L'adolescenza è come una seconda nascita che si realizzerà in tappe progressive. E’ necessario abbandonare a poco a poco la protezione familiare. Lasciare l'infanzia, cancellare il bambino che è in noi, è una mutazione.

Talvolta si ha l'impressione di morire. è una mutazione veloce, in alcuni casi troppo veloce. La natura lavora secondo ritmi propri. Bisogna sopravvivere e non sempre si è preparati. Si sa che cosa muore, ma ancora non si vede verso che cosa si sta procedendo. Qualcosa si è incrinato, ma non si sa bene né come né perché. Nulla è più come prima, ma si tratta di uno stato davvero indefinibile. 

Considerata l'incredibile evoluzione che si produce in noi, avremmo bisogno di avvertire l'interesse dell'ambiente familiare, ma quando questo interesse si manifesta può trattenerci nell'infanzia o, al contrario, spingerci troppo in fretta a diventare adulti. In entrambi i casi ci si sente “bloccati” da questa attenzione, mentre si sarebbe voluto un aiuto.

Si vorrebbe parlare da adulti, ma non se ne hanno ancora i mezzi. Si vorrebbe prendere la parola ed essere ascoltati con attenzione. Quando però ci è permesso parlare, troppo spesso serve a farci giudicare ma non a farci capire. Ci si fa strada con le parole e ci si ritrova in trappola. 

Quando i gamberi cambiano il guscio, per prima cosa perdono quello vecchio restando senza difesa durante il tempo necessario per fabbricarne uno nuovo. Ed è proprio in questo periodo che sono esposti a un grave pericolo. Per gli adolescenti è un po' la stessa cosa. E fabbricarsi un nuovo guscio costa tante lacrime e tante fatiche che è un po' come se lo si “trasudasse”. Nei paraggi di un gambero indifeso c'è sempre un congro (un crostaceo simile al granchio, che mangia gamberi) in agguato, pronto a divorarlo. L'adolescenza è il dramma del Gambero! Il nostro congro è tutto quanto ci minaccia, dentro e fuori di noi, e a cui spesso non pensiamo. 

Il congro è forse il bambino che siamo stati, che non vuole uscire di scena e che ha paura di perdere la protezione dei genitori. Ci trattiene nell'infanzia e impedisce di nascere all'adulto che saremo. Il congro in noi è anche quel bambino collerico che crede che si diventi adulti litigando con gli adulti. Il congro, ancora, è forse nascosto in quegli adulti pericolosi, persino profittatori, che girano attorno agli adolescenti perché intuiscono che sono vulnerabili. I genitori sono consapevoli dell'esistenza di persone del genere e che il pericolo incombe su di noi. Spesso hanno ragione quando ci invitano a essere prudenti, anche se è difficile accettare tale consiglio.

L'adolescenza è anche un movimento ricco di forza, di promesse e di vita: uno sbocciare. Questa forza è molto importante, è l'energia stessa di questa trasformazione. Come germogli che spuntano dalla terra, si ha bisogno di uscire. Forse per questo la parola uscire è così importante. Uscire è abbandonare il vecchio bozzolo ormai divenuto soffocante, è anche avere un legame d'amore. È un termine chiave che traduce bene il grande movimento che ci coinvolge.

In gruppo ci si sente bene, si hanno gli stessi riferimenti, un linguaggio codificato che permette di non utilizzare quello degli adulti. 

Nessun adolescente è senza problemi, senza sofferenza; forse è il periodo più ricco di dolore della vita, ma anche quello delle gioie più intense. Il guaio è che si desidera fuggire tutto ciò che si presenta difficile. Fuggire fuori da sé gettandosi in avventure dubbie o pericolose, trascinati da persone che conoscono la fragilità degli adolescenti. Fuggire dentro di sé, chiudersi dentro un guscio fasullo.

L'adolescenza è sempre difficile, ma, se i genitori e i figli hanno fiducia nella vita, tutto va sempre a posto”.

François Dolto


mercoledì 15 gennaio 2025

‘C’era stata l’amnistia…’

Mi ha detto la Pachiochia che donna Armida un tempo era ricca, ricca assai. Viveva in un palazzo al Rettifilo con la servitù. Confezionava i vestiti alle meglio signore della città e teneva conoscenze. Il marito, Don Gioacchino Saporito, stava quasi quasi per comprarsi l'automobile. Secondo la Zandragliona, però, donna Armida si era fatta strada leccando i piedi, con rispetto parlando, ai fascisti. Poi, quando il fascismo cadde, lei tornò magliara, proprio come aveva iniziato. Il marito, che era stato un pezzo grosso, fu arrestato e interrogato. Tutti si aspettavano una punizione: una condanna, la galera. Invece poi non se ne fece più niente. Disse la Zandragliona che c'era stata l'amnistia. Che è come quando mia mamma Antonietta scoprì che avevo rotto la zuppiera per i maccheroni che le aveva lasciato la buonanima di sua madre Filumena, pace a lei e salute a noi, e allora mi disse: "Levati davanti agli occhi miei sennò ti uccido di mazzate". E io me ne scappai dalla Zandragliona e non mi feci vedere per due giorni. Il marito fascista di Don Armida fu lasciato libero, se ne tornò a casa e nessuno gli disse più niente. Adesso fanno i magliari dentro un basso, nel vicolo a fianco al mio. 

Viola Ardone  Il treno dei bambini



martedì 14 gennaio 2025

Paolo e Francesca

Tra i celebri baci raccontati nella letteratura europea, nessuno ha suscitato un fiume di commenti e di interpretazioni come quello di Paolo e Francesca. Questi versi del V canto dell’Inferno, infatti, hanno dato, per secoli, filo da torcere ai più diversi esegeti. Dante, nel secondo cerchio dei lussuriosi dove sono condannati gli incontinenti che piegano la ragione alla passione («i peccator carnali/ che la ragion sottomettono al talento» 38- 39), viene colpito da due anime, che a differenza delle altre, si muovono accoppiate («parlerei a quei due che ‘nsieme vanno » 74): si tratta di Francesca da Polenta e di Paolo Malatesta, cognati, che a causa della loro relazione adulterina vengono poi uccisi dal deforme Gianciotto, marito di lei e fratello dell’amante (della tragedia, probabilmente avvenuta tra il 1283 e il 1286, non c’è traccia nelle cronache del tempo).

Prima di raccontare l’assassinio, Francesca si sofferma sulla natura universale dell’amore (la parola «Amor», in sequenza anaforica, apre tre terzine consecutive: vv. 100, 103, 106), con celebri versi come «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende» (formula molto cara allo “stil nuovo” e allo stesso Dante, in cui si ribadisce che l’amore infiamma facilmente il cuore nobile) o «Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (amore non consente a chi è amato di non ricambiare, a sua volta, l’amore).

Lasciando da parte le diverse spiegazioni di questa “premessa” in cui riecheggiano anche le diffuse riflessioni di Andrea Cappellano sull’amore – alcuni la considerano una strategia per addossare alla forza dell’amore la colpa del tradimento, altri insistono al contrario sull’autocondanna – rimane molto interessante l’analisi delle circostanze in cui gli amanti scoprono la loro reciproca passione.

Francesca narra nel dettaglio il momento fatale. I cognati stanno leggendo il romanzo francese in cui si racconta la storia dell’innamoramento di Lancillotto (valoroso cavaliere della Tavola Rotonda) e di Ginevra (moglie di re Artú). Sono soli e non hanno nessuna percezione («alcun sospetto») del pericolo che stanno correndo. E mentre la lettura provoca più volte l’incrocio dei loro sguardi facendoli impallidire, solo un episodio si rivela decisivo: quando viene narrato il bacio di Lancillotto a Ginevra (in realtà nel romanzo è la regina che bacia il cavaliere), Paolo bacia Francesca («la bocca mi baciò tutto tremante»).

Dante, turbato e commosso dalla tragica vicenda dei due amanti, sviene («E caddi come corpo morto cade» 142). L’amore impossibile di Lancillotto e Ginevra diventa lo specchio in cui si riflette l’amore impossibile dei due cognati. Ecco perché il libro è Galeotto (il personaggio che nel romanzo farà da mezzano tra i due amanti): la letteratura può ispirare la vita, proprio come la vita ispira la letteratura. Lo hanno imparato, in contesti molto diversi, anche Don Chisciotte (avido lettore di libri di cavalleria) e Madame Bovary (innamorata di racconti d’amore). Buoni o cattivi lettori, poco importa! Un libro può cambiare la vita. 

Roberto Burchielli - 20 maggio 2016 - Corriere della sera / Sette


lunedì 13 gennaio 2025

Il primo ghetto

Al rintocco della campana della ‘marangona’ ...si aprivano e poi si chiudevano (a mezzanotte) le pesanti porte di legno del Ghetto degli ebrei di Venezia, che lì avevano obbligo di dimora. La decisione presa dal Senato della Repubblica, nel 1516, stabilì dunque che questa popolazione (un intreccio di provenienze da diverse parti d'Europa, anche in seguito alla cacciata da Spagna e Portogallo nel 1492 e nel 1496) vivesse in un sestiere della città, a Cannaregio, entro un determinato luogo (un tempo caratterizzato da una fonderia “getto di rame”), tenuto sotto controllo anche di notte, con barche preposte alla ronda. Fu solo con l’avvento di Napoleone in città che quelle porte non si richiusero più.

Dunque fu Venezia a istituire il primo ghetto della storia in Europa. Via via nei secoli ne sarebbero seguiti altri (Francoforte, Roma, Cracovia, Praga, quest’ultimo ribattezzato Josefov in onore dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena che, nel 1784, concesse agli ebrei alcuni diritti). Fino ad arrivare alla mostruosità di quello di Varsavia fondato nel 1940 dai nazisti (400 mila ebrei ammassati in meno di due chilometri quadrati) e che preludeva alla deportazione nei campi di concentramento in vista dello sterminio. Quest’ultima degenerazione sacrificale del significato di ghetto ci spinge ad andare a ritroso nella storia, a riportarci a Venezia, per capire la nascita e il significato sociale di questo confinamento urbano (vero e proprio perimetro di separazione dall’altro corpus della città), che il governo della Serenissima decretò politicamente necessario...

Francesca Pini

domenica 12 gennaio 2025

Acqua e anice

“Cos'è la pianura padana dalle sei in avanti, una nebbia che sembra di essere dentro a un bicchiere di acqua e anice, eh già”

Paolo Conte - La fisarmonica di Stradella